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Carmelo Spada 2 dicembre 2014
L'opinione di Carmelo Spada
Il Piano Casa che non vogliamo


Nelle settimane scorse le associazione ambientaliste Legambiente, Italia Nostra, Inu, Fai, Lipu e Wwf hanno apprezzato che la Giunta Regionale si muovesse per la salvaguardia del nostro pregevole e fragile patrimonio storico, naturale, identitario e paesaggistico con il dispositivo di revoca della DGR 45/2 del 25 ottobre 2013, contenuto nella DGR 39/1 del 10 ottobre 2014. Era dunque lecito sperare che l’Amministrazione regionale ponesse davvero mano, con massima sollecitudine ed assoluta priorità, alla revisione della legge urbanistica, alla semplificazione procedurale, alla estensione del piano paesaggistico regionale alle zone interne, alla rapida attuazione del medesimo PPR mediante formazione e adeguamento di tutti gli strumenti urbanistici locali (Piani Urbanistici Comunali, Piani Urbanistici InterComunali e Piani attuativi). Invece l'approvazione del Ddl Casa elaborato dalla Giunta Regionale si rischia di produrre molteplici effetti di segno contrario rispetto agli intenti condivisibili sopra richiamati.

Occorre peraltro ricordare che le normative regionali in materia di Piano Casa derivano dal contenuto dell'Intesa 31 marzo 2009 della Conferenza Stato-Regioni ed Enti Locali, che si poneva quali obiettivi quelli di fronteggiare la crisi mediante un riavvio dell'attività edilizia, rispondere ai bisogni abitativi di categorie sociali disagiate, introdurre incisive misure di semplificazione procedurale, migliorare la qualità architettonica e/o energetica degli edifici, e promuovere interventi straordinari di demolizione e ricostruzione.
Ma secondo l'Intesa citata, gli interventi edilizi non avrebbero potuto riferirsi ad edifici abusivi, né riguardare i centri storici o le aree di inedificabilità assoluta, e le leggi regionali potevano individuare gli ambiti nei quali gli interventi fossero esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico, nonché gli ambiti nei quali i medesimi interventi potessero essere favoriti con opportune incentivazioni e premialità finalizzate alla riqualificazione di aree urbane degradate.

La disciplina introdotta dalle leggi regionali avrebbe dovuto avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi: il Piano Casa proposto dal governo nazionale nel 2009 e concertato con le Regioni in sede di Conferenza, così come le norme emanate dal Consiglio regionale della Sardegna negli anni scorsi, avevano dunque il carattere della temporaneità, mentre il DDL allegato alla DGR 39/1 del 10 ottobre 2014 reca misure definitive, in quanto non prevede un termine per la presentazione di richieste di permessi o di comunicazioni di inizio lavori, rendendo stabile un regime ammissibile solo in quanto temporaneo.
Si ritiene che non vi era e non vi è alcuna obbligatorietà, per la Regione Autonoma della Sardegna, di emanare una norma derivante dall'Intesa del marzo 2009, anzi, visto il limite temporale imposto e già abbondantemente superato, vale l’obbligo di non prorogare ulteriormente il Piano casa vigente ormai da cinque anni. Ma tale norma dovrebbe anzitutto tener conto dei buoni propositi più volte enunciati, con prioritario e specifico riguardo verso un modello di sviluppo basato non sulla espansione edilizia, né sulla tradizionale crescita quantitativa, bensì sulla promozione della cultura, dell'istruzione, della ricerca, del turismo, dell'agricoltura e sulla tutela del patrimonio culturale e ambientale.

Il complesso normativo del DDL, invece, in assenza della annunciata nuova legge urbanistica e dell’adeguamento del Ppr alle disposizioni del D.lgs n. 63 del 2008 (decreto legislativo sul paesaggio), non promuove l'avanzamento di quel nuovo modello di sviluppo, ma sembra anzi configurare un'ulteriore periodo di attesa a tempo indeterminato, una sorta di “Piano Casa perenne”, durante il quale saranno possibili molti interventi edilizi potenzialmente assai lesivi, vista anche la grande e persistente eterogeneità dello stato della pianificazione urbanistica, in ambito regionale, poiché molti Comuni dispongono ancora soltanto del Piano Regolatore Generale, o persino del solo Programma di fabbricazione, e molti Piani non sono dunque neppure adeguati alle disposizioni della LR 45/1989 (legge urbanistica).

Per altro verso, la serie di luttuose e devastanti alluvioni che hanno colpito tante parti d'Italia, ed anche la nostra Isola in forma gravissima, impone la necessità di rafforzare la salvaguardia del regime idrografico e la tutela del paesaggio fluviale, anche in considerazione dei cambiamenti climatici che stanno mutando il regime meteorologico, con piogge molto abbondanti concentrate nel tempo. Sarebbe quindi davvero molto pericoloso consentire ampliamenti edilizi nelle zone a rischio inondazione o a rischio frane. Sarebbe prudente, nelle more dell'adeguamento degli strumenti urbanistici locali al PPR e al PAI, mantenere nello stato di naturalità la fascia territoriale di 500 metri dalle sponde dei fiumi del reticolo principale, al fine di preservare la permeabilità dei suoli, ma anche dichiarare inedificabile la fascia di 300 metri dalle sponde dei corsi d'acqua, in attesa della definizione delle aree pericolose ed a rischio, secondo la disciplina prevista dall'art 8 del PAI medesimo, onde prevenire il verificarsi di nuovi eventi catastrofici. Infatti, la realtà purtroppo ci presenta delle zone dove non è stato rispettato neanche il regime di inedificabilità assoluta nella fascia di dieci metri dalle rive dei corsi d'acqua, come prescritto dall'art. 96, lettera f, del Regio Decreto 523 del 25 luglio 1904.

La disciplina di tutela dei suoli agricoli e dei paesaggi rurali, che dovrebbe preservarli dall’edificazione sia nella fase di transizione per l’estensione del PPR alle zone interne che come indicazioni per la redazione del medesimo, nonché dei PUC o dei PUIC ad esso adeguati, appare incapace di impedire ulteriore trasformazione del paesaggio agrario. In particolare, la facoltà generalizzata di costruire in zona agricola disponendo di un fondo di appena uno o tre ettari costituirebbe una misura assai lesiva della superstite integrità dei suoli extraurbani, della fascia costiera e del paesaggio rurale storico. La residenza in agro è illogica e dannosa quando si configura un utilizzo distorto e incontrollato del territorio, oltre al rischio di mettere in crisi la macchina dei servizi e delle infrastrutture comunali (e di far lievitare a dismisura i suoi costi) dando il via ad un’urbanizzazione non programmata e selvaggia. Altrettanto non condivisibile è il fatto di indurre i disabili e i disagiati ad ampliare i propri spazi residenziali anche nei centri storici, il che produrrebbe lesive e crescenti modifiche nell'ambito del costruito antico con ulteriore depauperamento del suo valore tradizionale e identitario, in alternativa sarebbe di gran lunga più opportuno incentivare ed agevolare, con misure fiscali o finanziarie, l'acquisizione o la locazione di unità immobiliari maggiormente consone alle loro peculiari e individuali esigenze.

Non si dimentichi che l'uso dei sottotetti per funzioni abitative, gli ampliamenti consentiti dal medesimo DDL, la stessa “densificazione” dei luoghi ricettivi e residenziali, comporterebbero, oltre al depauperamento delle dotazioni minime essenziali di servizi, verde pubblico e parcheggi, anche l'aumento considerevole del carico urbanistico e dunque la necessità per le amministrazioni comunali di revisionare ed implementare il sistema di smaltimento dei rifiuti e delle fognature, spesso già carente e comunque progettato per un minor numero di abitanti, con conseguente aggravio di spese per le già sofferenti casse comunali. Inoltre la disciplina sugli ampliamenti e sull'uso dei sottotetti, così come proposta dal DDL, appare sotto alcuni aspetti contraddittoria, e nella situazione attuale assai pericolosa, anche per la possibilità della modifica delle sagome degli edifici anche plurimmobiliari. La disciplina apre infatti alla possibilità, perfino in assenza di strumento urbanistico o in deroga ad esso, di frazionare e in alcuni casi addirittura alienare gli immobili ampliati, con effetti localmente ingovernabili. Quanto alla fascia dei 2000 metri dalla linea di battigia marina e, a maggior ragione nella fascia dei 300 metri, in assenza di strumento urbanistico locale (PUC, PUIC, PUL) adeguato e conforme alle direttive e ai principi del PPR, appare inopportuno consentire la realizzazione di strutture con finalità ricreative e di soccorso, e comunque esse dovrebbero rimanere soggette al rispetto degli indici e dei parametri edilizi di zona urbanistica e al vincolo di conservazione totale richiamato dal comma 1 dell'art. 10 bis della LR 45/1989.

In ogni caso, le disposizioni contenute nell'art. 13 della LR 4/2009 costituiscono una sostanziale e persistente deroga alla piena applicazione ed attuazione delle norme vincolanti, dei principi e delle direttive del piano paesaggistico regionale la cui illegittimità è stata già dichiarata più volte dal Tar Sardegna e dal Consiglio di Stato e pertanto si evidenzia l’opportunità e l'urgenza di una sua abrogazione. Si ritiene che una legge regionale recante i contenuti del DDL in questione sarebbe viziata da profili di incostituzionalità e di illegittimità, e che quindi sia destinata a soccombere nella fase applicativa e nel contenzioso amministrativo, pertanto si esprime grande preoccupazione per gli effetti lesivi e irreversibili che nell'immediato tale provvedimento potrebbe produrre sul patrimonio culturale e ambientale della nostra Isola. Infine si auspica un urgente riordino organico ed integrato della normativa regionale in materia edilizia, urbanistica e paesaggistica, affinché vengano prodotte regole chiare, di semplice applicazione, assicurando un regime stabile ed affidabile di salvaguardia del paesaggio e del territorio, a cominciare dalla estensione del PPR alle zone interne ed alla accelerazione del processo di attuazione del PPR medesimo mediante l'adeguamento e la formazione dei PUC e dei PUIC dell'intera Regione.

* delegato Wwf per la Sardegna
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